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La terza A in viaggio lungo l'Adda

Il progetto didattico

Con la mia classe partecipo a Policultura per il secondo anno consecutivo. Questa volta non ho preso io la decisione: è stata la classe stessa che, forte dell'esperienza dell'anno scorso e motivata dall'aver solo sfiorato allora un riconoscimento, ci ha voluto riprovare.
Il lavoro presentato nell'anno scolastico 2011/12 era il risultato di un laboratorio di storia locale che, impegnandoci per un intero quadrimestre, aveva molto contribuito alla definizione dell'identità della classe, questo organismo pulsante e informe che spesso fatica – nel breve arco dei tre anni di scuola media – a rivelare tutte le sue potenzialità. Ci eravamo molto divertiti, conosciuti e reciprocamente motivati, svolgendo quella prima narrazione, e l'innegabile fatica era stata premiata da una menzione tra i finalisti. Ci era rimasto però un po' di amaro in bocca per essere stati fra i pochi, alla fine, a non vincere niente e soprattutto per aver dovuto lasciare a casa, nel giorno della premiazione, i tre quarti della classe, i quali – pur avendo seguito in streaming la cerimonia – si erano però preclusi la possibilità di respirare quell'atmosfera unica dell'Università, che tanto serve a proiettare questi adolescenti in possibili scenari futuri, a immaginarsi grandi, a far crescere in sé la voglia di arrivarci fino a lì.
Ho raccontato questo retroscena perché rende bene l'idea di ciò che ci ha mosso quest'anno: una fortissima motivazione, l'ingrediente base di qualunque progetto didattico che abbia la pretesa dell'efficacia. E allora eccola la terza A al lavoro come mai l'avevo vista: testa bassa per un progetto grandioso, più grande di loro. Ciò che vogliono davvero è superare se stessi, confezionare un prodotto finito che si avvicini alla perfezione formale e sia esaustivo nei contenuti. Per quanto mi ostini a dire loro che non è questo ciò che conta, che qualche sbavatura ci può stare e che non abbiamo tempo per curare tutti i minimi dettagli, non c'è niente da fare: i ragazzi hanno preso il sopravvento, sono loro a condurre il gioco ora, lavorando anche a casa, recuperando le competenze apprese con l'insegnante di tecnologia e con quello di musica per aggiungere i sottofondi musicali, andando per conto loro la domenica in bici a verificare in loco se quanto abbiamo scritto è vero e preciso, infine obbligando me e l'altra prof a organizzare un'ulteriore gita, oltre alle due già previste, “...perché dobbiamo andare a vedere. – dice giustamente Giulia – Non possiamo parlare di luoghi che non abbiamo mai visto”.
E così la nostra narrazione (un itinerario lungo un tratto di Adda, una specie di vademecum sintetico per il viaggiatore che ama l'arte, la natura e il buon cibo) da percorso metaforico si fa cammino vero: prima a Lecco, nei luoghi manzoniani e là dove il lago diventa fiume, poi nel tratto centrale, tra Paderno e Brivio, dove i paesaggi e l'atmosfera leonardesca ripagano la fatica della camminata nel gelo di una mattina novembrina; infine a Crespi d'Adda, dove l'itinerario volge al termine, in uno dei luoghi più rappresentativi dell'industriosità dell'uomo lungo queste acque.
In tutto ciò noi insegnanti non siamo che registi molto nascosti, se non addirittura spettatori di fronte a tanti attori che ormai padroneggiano i mezzi tecnologici meglio di noi e sanno molto bene dove vogliono arrivare. Non ci resta che fare, più che altro, gli educatori: ritagliare spazi anche a chi tenderebbe a restare in disparte, valorizzare le differenze e i singoli talenti, smorzare qualche mania di grandezza o di protagonismo.
Così, strada facendo, questa esperienza diventa per noi qualcosa di molto più grande di un progetto didattico: è parte della nostra storia, è spazio di condivisione, è cammino vero. Siamo tutti sullo stesso piano in questo viaggio, perché cade la barriera fra docenti e discenti, dal momento che tutti insieme stiamo costruendo qualcosa, siamo in ricerca di un sapere non preconfezionato, vogliamo far nostro un pezzo di mondo. E ancora una volta sono io per prima a imparare moltissimo, sul piano culturale, professionale e umano.
Non so se il risultato finale sarà all'altezza delle aspettative (altissime) dei ragazzi. Posso però affermare con certezza il successo di questa didattica operativa e laboratoriale, dove la dinamica insegnamento/apprendimento si dipana secondo traiettorie imprevedibili e sorprendenti, nel piacere reciproco della scoperta, dove i risultati non sono mai immaginabili a priori e dove la conoscenza – mentre si fa – è già competenza per la vita.